Libertà atlantiche

Traduzione e introduzione di Mariapiera Pepe e Stefano Rota

Una sfida. Non solo al metodo della storiografia ufficiale tout court, ma soprattutto, o di conseguenza, al pensiero politico europeo, alle letture che ha proposto per secoli rispetto ad alcuni cambiamenti epocali a livello globale, alle sue connivenze più o meno velate con il razzismo schiavista e coloniale che vi sta alla base. Una sfida, quella qui riassunta, che non inizia certamente oggi, come testimoniano le pubblicazioni che un numero sempre maggiore di studiosi e ricercatori dedicano all’Atlantic History, basandosi su fonti diverse da quelle dell’archivistica istituzionale (sulla stessa linea in cui si collocano i Subaltern Studies indiani, così come un approccio epistemologico alle questioni inerenti le popolazioni indigene definito “antropologia cromatica”, come ricorda Dubosc in un altro articolo su questa stessa pagina), quindi a leggere gli incontri tra coloni e nativi “dalla terra, piuttosto che dalla nave”. La ragione è semplice: la grandissima maggioranza degli schiavi, anche dopo una permanenza prolungata nelle colonie, era illetterata; le storie, le rivendicazioni, le rivolte trovavano altri canali di trasmissione rispetto alla carta stampata. Questo contiene, in estrema e ingenerosa sintesi, l’intervento di Laurent Dubois che pubblichiamo qui tradotto.

Sono molte le pagine dell’Atlantic History che non hanno ancora ricevuto, per lo meno in Italia, l’attenzione che meriterebbero: una tra tutte, la rivolta a São Tomé e Príncipe capeggiata dal marron Rui Amador alla fine del XVI secolo, che ci proponiamo di presentare a breve (sr/mpp).

Atlantic Freedoms*

 

di Laurent Dubois**

La sfida è questa: scrivere una storia del pensiero e della cultura politica moderna che possa simultaneamente - e ugualmente - incarnare e comunicare le prospettive di coloro che sono arrivati in Virginia nella stiva della nave negriera São João Batista, da un lato, e di Thomas Jefferson, Sally Hemings , di Jean-Jacques Dessalines e Napoleone Bonaparte, di Andrew Jackson e Harriet Tubman, dall’altro. Anche se un simile progetto potrebbe sembrare donchisciottesco, bisogna provarci. Questa è la storia politica di cui ci sarà bisogno per costruire una politica futura che vada oltre i retaggi della schiavitù razziale, piuttosto che coesistere continuamente con gli stessi. Il campo della "Atlantic History", che ha visto un’ampia espansione negli ultimi decenni, è ciò che ci permetterà di farlo.

 

Che gli Stati Uniti siano nati da una storia di conquiste e insediamenti che ha portato persone dall'Europa e dall'Africa attraverso l'Atlantico è, ovviamente, una parte indiscutibile della storia della nazione. Più in generale, questa è la storia di tutte le Americhe, anche se i modi con cui si sono intrecciati nel processo i popoli europei, africani e nativi americani variano molto da un posto all'altro. Le domande poste dall’Atlantic History riguardano come raccontare questa storia. Chi mettere al centro di questa storia? Quali categorie di analisi dovremmo utilizzare e su quali strutture sociali, economiche e istituzionali dovremmo concentrarci?

È normale che uno spazio d'acqua sia diventato la base per una messa in discussione di alcune delle nostre narrazioni storiche più vaste e più care. Fino all'invenzione della ferrovia, l'acqua era il veicolo più importante per il movimento: persone, merci, voci, canzoni, idee. Il mondo era collegato dai porti e questi si assomigliavano l'un l'altro in molti modi differenti. Anche se si trattava di un mondo connesso, le esperienze e le prospettive erano ampiamente divergenti al suo interno. Da quale prospettiva dovremmo provare a ricostruire il mondo atlantico?

 

Alla base di ogni opera della storia c'è una questione di posizionamento. Si tratta anche, in una certa misura, di una questione etica. Di chi è la storia che si sta narrando? E da quale prospettiva si parte? Come ama dire il pensatore haitiano Jean Casimir, quando scrivi la storia di Colombo arrivando in quello che gli indigeni chiamavano Ayiti, devi prendere una decisione: sei sulla barca o sulla spiaggia?

Tradizionalmente, la storia delle Americhe era scritta in gran parte dalla prospettiva degli europei, dei conquistatori e dei coloni. Erano i loro scritti, i loro archivi, che sostenevano la storia e, in senso lato, epistemologie e ideologie europee che superavano il senso stesso di ciò che costituiva la storia. Negli ultimi decenni, gli storici hanno lottato per invertire questo schema, raccontando storie fondate sulle prospettive e le esperienze dei nativi americani, nonché sugli africani e gli afro-americani che erano stati ridotti in schiavitù nelle Americhe.

 

C'è un sogno al centro di un grande lavoro storico: trovare un equilibrio tra tutte queste prospettive, che si possa, infatti, essere sia sulla barca sia sulla spiaggia allo stesso tempo, o forse fluttuarci sopra, prendere appunti con equanimità. Ma se è quanto meno utile come aspirazione, non è certo così semplice. Il punto di vista dalla riva e quello dalla barca implicano molto altro: dalla capacità di vedere e capire certe cose, alla lingua parlata e a come è capita. Le due prospettive implicano domande profonde: in che modo ciascun gruppo pensa alla storia umana e al proprio posto al momento dell'incontro? Casimir, quindi, ha probabilmente ragione dicendo che ci sono delle scelte fondamentali da fare. E mentre ci sono pochi momenti nella storia in cui il potenziale per le prospettive divergenti è tanto radicale quanto lo è al momento della conquista, ogni momento storico è definito dalle differenze di prospettiva - storicamente costituite - indotte da partecipanti diversi.

Ciò è particolarmente vero quando pensiamo a come scrivere la storia della schiavitù, e più in particolare degli stessi schiavizzati e di come hanno vissuto, visto tutto ciò e, in alcuni casi, delle loro ribellioni contro l'istituzione. L'Atlantico fu il luogo di uno dei movimenti più drammatici della storia umana: il commercio degli schiavi, che portò almeno 12 milioni di africani nelle Americhe tra il XVI e il XIX secolo. La storia della nave negriera è al centro della storia atlantica.

 

Circa il 45 per cento degli africani portati nelle Americhe arrivò nei Caraibi, una regione che è stata tra le più produttive in termini sia di teoria che di pratica riguardo il problema della storia della scrittura. Gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti visivi e i musicisti della regione hanno a lungo affrontato in modo particolarmente ricco la questione di come narrare e affrontare la storia del genocidio indigeno, del colonialismo europeo, del commercio degli schiavi e delle piantagioni e della ricca e stratificata storia culturale che emerse da questa interazione di forze globali e locali. Storici come C. L. R. James ed Eric Williams, il cui lavoro è stato fondamentale nello sviluppo della storia atlantica, facevano parte di questa più ampia matrice culturale e intellettuale. Nei decenni successivi, altri pensatori - in particolare l'antropologo haitiano Michel-Rolph Trouillot - sono stati al centro di discussioni su come scrivere la storia moderna da una prospettiva radicata nei Caraibi. Al centro di gran parte di questa riflessione sulla storia e la politica nei Caraibi c’è stata una delle epopee più interessanti della storia moderna: la rivoluzione haitiana.

 

Tra il 1791 e il 1804, la Rivoluzione haitiana fu un evento tanto locale quanto globale, un vero momento di storia mondiale, nei termini che oggi sono sempre più riconosciuti come tali. Un modo utile per pensare alla rivoluzione haitiana è la più radicale (e quindi una delle più importanti) affermazione del diritto ad avere diritti nella storia umana. Ancor più delle rivoluzioni americana e francese, con cui era intrecciata, la rivoluzione haitiana ha posto una serie di questioni politiche assolutamente centrali. Lo ha fatto in un modo che era illeggibile per molti e represso con la forza da altri. Ma qualsiasi analisi della storia politica moderna, non solo di Haiti ma del mondo intero, deve cimentarsi con le implicazioni di questa rivoluzione per i concetti fondamentali che riguardano la politica moderna.

La colonia francese di Santo Domingo, l'apice del sistema schiavistico atlantico e la più ricca delle colonie delle piantagioni delle Americhe, si basava su una negazione totale della sovranità alla maggioranza. Il novanta per cento della popolazione della colonia fu ridotta in schiavitù - più della metà di loro nati in Africa, molti dei quali erano arrivati di recente nella colonia al tempo dell'inizio della rivoluzione nel 1791 - e non erano considerati in alcun modo soggetti legali o politici. Si trattava di proprietà di beni mobili che, attraverso un sistema di leggi attentamente istituzionalizzato e associato a forme di repressione violenta, non avevano alcuna possibilità di autonomia propria. Ciò nonostante, hanno strappato spazi di autonomia all'interno della piantagione, coltivando piccoli appezzamenti di terra e portando i prodotti sul mercato. Hanno anche creato spazi di libertà culturale e intellettuale, creando visioni politiche che alla fine avrebbero trovato voce nella rivoluzione.

 

L'ordine delle piantagioni era basato su ideologie razziali derivanti e sostenute dal sistema schiavista atlantico. Al centro di queste ideologie c'era una sorta di dialettica che permetteva la celebrazione simultanea di una possibilità di libertà d’azione e indipendenza da parte di certi gruppi, negando allo stesso tempo quella possibilità agli altri. Il sistema di pensiero razziale della colonia era basato su una serie di argomenti riguardanti la fondamentale incapacità di un gruppo connotato dal colore della sua pelle di saper esercitare il proprio governo. In quanto tale, il sistema schiavista della piantagione a Santo Domingo e altrove fu uno dei meccanismi di maggior successo per la negazione di massa dei diritti umani nella storia del mondo moderno.

 

A partire dall'insurrezione degli schiavi del 1791, non sorprende quindi che coloro che hanno messo in atto coraggiosamente e in modo sistematico la distruzione di questo sistema abbiano sviluppato definizioni particolarmente forti dei diritti umani. Haiti, non gli Stati Uniti o la Francia, fu il luogo in cui l'affermazione dei veri valori universali raggiunse il suo culmine durante l'Era della Rivoluzione. Le persone schiavizzate che erano considerate beni mobili piuttosto che esseri umani insistettero sul fatto di avere il diritto di essere libere e, in secondo luogo, di avere il diritto di governarsi secondo una nuova serie di principi. Le loro azioni sono state un segnale e un momento di trasformazione nella storia politica globale. I rivoluzionari haitiani hanno spinto in avanti in modo sorprendente i principi illuministici di universalismo, insistendo sul principio autoevidente, ma in gran parte negato, secondo cui nessuno dovrebbe essere schiavo. E lo fecero nel cuore del sistema economico mondiale, trasformando la colonia più redditizia del mondo in una nazione indipendente fondata sul rifiuto del sistema della schiavitù che dominava tutte le società e da cui era circondato nel resto delle Americhe.

 

Ma creare una storia intellettuale della rivoluzione haitiana costituisce una sfida particolare, poiché la stragrande maggioranza dei suoi attori chiave non ha lasciato tracce scritte della propria filosofia politica. Questo, ovviamente, non significa che non ce l'avessero. Significa solo che non l'hanno esplicitata attraverso la scrittura. Su questo, in realtà, non erano poi così diversi dalla stragrande maggioranza degli attori delle rivoluzioni americana o francese, i quali dipendevano nella stessa misura da conversazioni e trasmissione orale di informazioni per dar forma al proprio pensiero e azioni.

La carta stampata non era assente nella Rivoluzione haitiana, ma certamente ha svolto un ruolo minore rispetto alle rivoluzioni americana e francese, dove l'esplosione della stampa fu l’elemento cardine della rivoluzione stessa. Gli storici delle rivoluzioni americana e francese stati troppo dipendenti e concentrati sul ruolo della carta stampata. Le circostanze molto diverse della rivoluzione haitiana - il fatto che la schiavitù avesse impedito alla maggior parte dei protagonisti dell'evento di ottenere l'accesso all'alfabetizzazione – ci obbliga a usare un metodo diverso. Così facendo, otteniamo informazioni non solo sulla rivoluzione haitiana, ma forse anche su modi diversi di guardare la storia della politica in modo più ampio.

Nonostante gli storici utilizzino sempre più materiali di diversa natura, gli archivi rimangono in larghissima parte costituiti da testi. Ciò può portare a una sorta di distorsione: utilizzare unicamente i testi per interpretare il passato, può portare a una sopravvalutazione del loro ruolo in quello stesso passato. Studiando la rivoluzione haitiana, dobbiamo costantemente tener presente, quindi, che questi testi sono per lo più tracce di un più ampio insieme di conversazioni che non sono state tradotte in scrittura, ma sono nate e rimaste nel parlare, organizzare e discutere, nel mezzo di azioni militari e politiche.

 

Ciò che rende particolarmente interessante il caso della Rivoluzione haitiana è che la maggior parte delle persone coinvolte non erano solo schiavizzate, ma nate in Africa. Erano sopravvissuti al passaggio centrale [la traversata atlantica] ed erano cresciuti in una pluralità di società africane, con le loro tradizioni di pensiero politico. Avevano nel loro vissuto esempi di istituzioni, modi di discutere, modelli di leadership e regole, così come di organizzazione culturale e sociale. In effetti, per molti di loro, questi punti di riferimento si sarebbero rivelati molto più importanti dell'esperienza della schiavitù e della piantagione. Negli anni precedenti alla rivoluzione haitiana, circa 40.000 persone furono portate alla colonia ogni anno dalle navi negriere. Ciò significa che, al momento della rivoluzione, almeno 100.000 persone o più (su una popolazione totale di schiavi di circa 500.000) erano nella colonia da pochi anni.

La maggior parte degli arrivi più recenti - di fatto la maggioranza tra gli schiavi - erano di origine centro-africana. Ciò significa che, come hanno sostenuto gli storici John Thornton e, più recentemente, Christina Mobley, scrivere la storia politica della rivoluzione haitiana significa necessariamente studiare e scrivere la storia politica dell'Africa centrale. Questo rappresenta un profondo riorientamento: il principio organizzativo centrale della maggior parte della scrittura della Rivoluzione haitiana, da James in poi, riguarda il rapporto tra le rivoluzioni francese e haitiana, una riflessione sui modi in cui quel particolare insieme di connessioni atlantiche divenne il vettore per il cambiamento e la trasformazione.

 

La ricerca di studiosi come Thornton e Mobley solleva molte questioni su come si possa conoscere e interpretare il contesto dell'Africa centrale che ha modellato così profondamente la storia haitiana. La diversità e la complessità della regione e i limiti delle fonti scritte implicano da parte dei ricercatori una serie di approcci - compresa un'ampia ricerca archivistica, linguistica storica, storia orale e archeologia - per ricostruire il contesto sociale e politico della regione nel XVII e XVIII secolo. Intensi dibattiti riguardano in particolare la questione della religione: il cattolicesimo era presente nella regione, ed è stato abbracciato dai leader del Regno di Kongo, a partire dal XVI secolo, il che significa che molte persone schiavizzate che attraversarono l'Atlantico praticavano quella religione. Ma il cattolicesimo Kongolese prese una forma sua propria, con una teologia e una pratica complesse, radicate e collegate a pratiche religiose e culturali locali.

Inoltre, capire esattamente da dove provengono i prigionieri prima di essere spediti ad Haiti è estremamente complicato: i registri delle navi negriere indicano più spesso porti di imbarco, mentre le fonti che indicano origini regionali o etniche devono essere interpretate con cura. Sappiamo molto, ma c'è ancora molto da imparare e scoprire su tali questioni. Ciò che la rimarchevole ricerca in quest'area mostra, tuttavia, è che scrivere la storia haitiana significa anche scrivere storia africana. Ma è anche vero il contrario: le fonti della storia haitiana - e più in generale caraibica e afro-atlantica - possono aiutarci a capire la storia africana di quel periodo con modalità differenti.

 

Gli storici stanno ancora lavorando per comprendere la relazione tra la rivoluzione haitiana, l'Europa e l'Africa. Come viaggia la politica? Chi crea idee politiche? Come si trasformano in azioni e istituzioni? Cercare di rispondere a queste domande significa affrontare un nodo centrale: ricostruire idee ed esperienze riguardo il genere e la sessualità in Africa, Europa e nei Caraibi. Significa anche trovare modi per raccontare la questione dello stupro e della violenza sessuale, ricostruendo la storia della riproduzione di persone schiavizzate: gravidanza, parto, educazione dei figli. Una piena comprensione delle pratiche della famiglia e della struttura della comunità è indispensabile per narrare la storia politica della schiavitù e dell'emancipazione.

 

Poiché le idee di genere sono alla base della costruzione della società, hanno di conseguenza modellato anche gli archivi. Di solito, gli archivi ci danno solo un frammento della vita delle persone, è quindi importante capire cosa influenza quei frammenti. Nel caso della rivoluzione haitiana, le donne hanno partecipato alle battaglie militari e al dibattito politico, hanno aperto la strada al cambiamento delle pratiche lavorative nelle piantagioni come conseguenza dell'emancipazione. Hanno insistito sul tempo e sull'autonomia per se stesse e hanno dato vita a forme di possesso della terra, vita religiosa e organizzazione familiare per cercare di andare oltre l'esperienza della schiavitù. Si conoscono adesso nuove storie esemplari che ricostruiscono le esperienze delle donne asservite, come i primi capitoli di Freedom Papers (2012) di Rebecca Scott e Jean Hébrard. E’ un lavoro che espande la comprensione del periodo e spinge a ripensare la storia e le sue possibilità.

L'esempio degli studi sulla rivoluzione haitiana è solo una parte di una più ampia storia "atlantica". Ciò che in realtà significa "Atlantic History", tuttavia, dipende molto dal relatore o dallo storico. A volte il termine è così vago che sfocia nell'insignificante. E’ problema non limitato al termine "atlantico". Chiedete ad un gruppo di storici in un bar cosa siano "Europa" o "Africa": dovreste essere pronti a pagare molti giri di bevute e a svegliarvi la mattina dopo con i postumi di una sbornia, ma senza una risposta chiara. Sono designazioni geografiche o politiche? Quando le persone hanno iniziato a usare questi termini e cosa intendevano? Quale dovrebbe essere la relazione tra le categorie utilizzate in un dato periodo storico e quelle stesse categorie che gli storici contemporanei potrebbero usare per descrivere quel periodo?

 

La politica che circonda la creazione di una storia "atlantica" ha una valenza particolare. La storia atlantica affronta una questione critica: cos'è l'Occidente? La domanda è - ed è stata a lungo - urgente. Si tratta di uno dei concetti storicamente consequenziali, su scala globale. Naturalmente, questo termine non vive da solo: esiste come parte di una concatenazione di termini e idee riguardo la razza, la cultura, la geografia e storia delle idee.

 

La geografia della storia atlantica coinvolge le relazioni tra l’Europa, l’Africa e le Americhe. La sua cronologia si svolge dal tardo XV secolo fino al XIX. Il suo ethos fondamentale consiste nell’evitare delle narrazioni teleologiche che sovrascrivono/sovrappongono storie nazionalistiche nel periodo coloniale. Come un mio collega era solito porla, dobbiamo discostarci dall’idea che, non appena arrivarono dall’Inghilterra, i colonizzatori cominciarono a guardare l’orologio e a dire: “Vorrei essere mio nipote così da poter combattere nella Rivoluzione Americana”. In altri termini, nulla di questo doveva svolgersi nel modo in cui si è svolto.

 

La schiavitù fornisce il luogo più efficace dal quale criticare le narrazioni trionfalistiche della storia americana. Osservate dalle navi cariche di schiavi e dalle piantagioni, le storie trionfalistiche narrate da molti sull’”Occidente” cominciano a sfilacciarsi. Pensare alla storia del mondo moderno dalla prospettiva della schiavitù e, più specificamente di chi è schiavo, impone una storia diversa di pressoché ogni cosa. Inoltre, rende possibile una visione della storia politica che sarà particolarmente significativa, ed utile, per il mondo attuale.

 

James e William, due intellettuali decisivi per l'approccio assunto nella storia Atlantica contemporanea, provenivano entrambi da Trinidad. I titoli delle loro due opere più famose condensano la sfida che lanciano. Black Jacobins di James (1938), concepito dapprima come opera teatrale, racconta la storia della Rivoluzione haitiana e del pensiero politico e delle  azioni del suo leader principale, Toussaint Louverture. Capitalismo e schiavitù di William (1944) sostiene che il sistema delle piantagioni nei Caraibi sia stato centrale per lo sviluppo dell’industria in Gran Bretagna, e che cambiamenti economici piuttosto che l’ideologia abbiano incoraggiato l’abolizionismo nel XIX secolo. 

Il testo di William ha ottenuto maggior riscontro. In buona parte, la reazione alla sua opera ha provato a confutare le sue argomentazioni, ma parti importanti della sua tesi hanno resistito. Black Jacobins di James nel frattempo ha reso la Rivoluzione haitiana un argomento di dibattito tra gli storici e ha posto le basi per una rinascita nel lavoro sulla storia caraibica. Entrambe le opere restano delle letture avvincenti e cariche di ispirazione, eccellenti nell’analisi e nello stile.

 

 Non tutti gli studiosi di questo ambito riconoscono James e William quali predecessori fondamentali. Vi sono altre genealogie, costruite da storici francesi e nordamericani che, a partire dagli anni ‘60 e '70, hanno cominciato a prestare una crescente attenzione agli incroci tra l’Europa e le Americhe, soprattutto per quanto concerne la questione della storia politica. R R Palmer ha realizzato un classico studio comparativo sull’Età della Rivoluzione, sebbene abbia commesso quella che oggi sembra una sorprendente omissione: non c’è alcuna discussione sulla Rivoluzione haitiana. Allo stesso tempo, gli storici della tratta atlantica degli schiavi, in particolari modo Philip Curtin, hanno avviato il lungo processo di documentazione di tale storia, progetto culminato di recente nella creazione di uno straordinario database online aperto, che contiene sostanzialmente tutti i viaggi della tratta degli schiavi attualmente conosciuti. 

 

Tutto questo lavoro ha fornito agli studiosi una notevole quantità di nuovi dati. Oggi, non passa un mese senza che nuovi articoli e libri vengano pubblicati sulle connessioni tra diversi porti, sulle vite che si svolgevano in questi e tra questi. Queste storie spesso confutano idee radicate su cosa sia la storia americana, chi siano gli Americani e, di conseguenza, chi potrebbero ancora divenire. Ogni storico deve confrontarsi con l’etica e le sfide del raccontare queste storie, compiendo scelte al tempo stesso empiriche ed etiche.

 

 Il passato è sempre attuale nel presente e nei suoi dibattiti politici. Quando Michelle Obama parla del vivere in una “casa costruita dagli schiavi” vuole spingere gli Americani a considerare questa storia, che è spesso offuscata o distorta perché non è né felice né patriottica. Per comprendere e misurarsi con il presente, tuttavia, un solido senso del passato è indispensabile. C’è una genealogia che collega la Rivoluzione haitiana all’abolizionismo, il movimento per i diritti civili e il movimento Black Lives Matter. Comprendere, o semplicemente essere consapevoli di, tale genealogia può aiutarci tutti a comprendere meglio il mondo in cui viviamo e a riconoscere e a tendere verso la giustizia.

 

L’opera della storia è continua, senza fine, che è di per sé un testamento della sua necessità come pratica. Il fatto stesso che una così larga parte del passato rimanga non scritta ci ricorda continuamente che, allo stesso modo, anche il futuro non è scritto. 

 

 

* L’articolo è stato pubblicato originariamente in lingua inglese su Aeon

 

 

**Laurent Dubois è professore di Romance Studies and History e fondatore del Forum for Scholars & Publics della Duke University. Le principali aree di ricerca di Dubois riguardano la storia di Haiti e la politica del calcio. Il suo libro A Colony of Citizens: Revolution and Slave Emancipation in the French Caribbean, 1787-1804 ha vinto il Frederick Douglass Prize 2005.

 

Scrivi commento

Commenti: 0