Autoverità ed estrema destra in Brasile: il fenomeno Bolsonaro

Stefano Rota - Associazione Transglobal

Eliane Brum analizza il fenomeno Jair Bolsonaro, candidato dell’estrema destra alle elezioni in Brasile del 7 ottobre prossimo e in testa nei sondaggi (Lula escluso, ovviamente), in un articolo apparso su El Pais Brasil dal titolo “Bolsonaro e a autoverdade”. A tal fine, utilizza due strumenti: una ricerca condotta da Esther Solano dell’Universidade Federal de Sao Paolo sull’elettorato dell’alto ufficiale dell’esercito e un approccio al linguaggio usato, per quanto concerne la sua struttura, da un lato, e la sua relazione con i fatti, dall’altro.

Il continuo intersecarsi di questa doppia lettura del fenomeno Bolsonaro consente alla scrittrice brasiliana di delineare chiaramente quale direzione stia prendendo la politica in Brasile alla vigilia di elezioni molto importanti e, così facendo, ci dice molto anche di successi recenti a noi molto vicini, che indicano una tendenza generale, in occidente e non solo, in piena crescita.

 

Secondo Brum, quella che è stata definita come post-verità spiega solo parzialmente il rapporto tra politici, vincenti, come Trump o, aggiungiamo, Salvini, e la “realtà”, nel momento in cui questa entra in relazione con l’enunciazione. Per questo Brum preferisce usare la definizione di “auto-verità”:

“Il valore dell’auto-verità sta molto meno in ciò che viene detto e molto di più nel fatto di dire. ‘Dire tutto’ è l’unico fatto che interessa, o, per lo meno, quello che più interessa. E’ questa dislocazione di dove sta il valore, dal contenuto di ciò che viene detto verso l’atto di dire, che ci aiuta a comprendere la risonanza di personaggi come Jair Bolsonaro e, ovviamente, Donald Trump […]”.

 

In queste poche righe c’è davvero tanto: vale la pena provare a descrivere in modo un po’ più articolato questo rapporto e la dislocazione che ne deriva.

Ci sono tre elementi, a mio modo di vedere, importanti: il “dire tutto”, la “verità” e “atto di parlare”. Si tratta di concetti fondamentali per l’interpretazione dell’articolazione soggetto-“realtà”, nelle dinamiche costitutive dei rapporti di potere.

 

Come riportato da Eliane Brum nel suo articolo, la ricerca a cui fa riferimento mette in risalto affermazioni ricorrenti tra i sostenitori di Bolsonaro (che tra i giovani marginalizzati rappresentano una maggioranza schiacciante): “lui dice tutto quello che deve essere detto, e non gliene frega niente, è un gran figo”; “ha il coraggio di esporre le proprie opinioni, dicendo la verità”; “sputtana i soggetti di Brasilia, dicendo quello che deve essere detto”.

 

“Dire tutto”, “dire la verità”: questo refrain che ha accompagnato anche le elezioni americane e italiane, che ha portato all’individuazione di soggetti e aree ben definite a cui rivolgersi in modo specifico (dalla rust belt, agli abitanti delle periferie dove si concentrano le strutture dei richiedenti asilo) è per Foucault un punto centrale del rapporto tra l’oratore e i suoi interlocutori, soprattutto se questi sono, direttamente o indirettamente, chiara espressione del potere costituito (per Salvini, le regole dell’Unione Europea, ad esempio). Una delle caratteristiche della parrhesia, infatti, “è che si basa su un compito: l’oratore che rischia parlando al popolo o a un re, sceglie di farlo a rischio della propria vita, perché lo sente come un compito.”[1] Questo del “compito” è un aspetto importante che vedremo dopo, nell’incidenza, diretta e indiretta, delle chiese evangeliche nella politica brasiliana. Quello che piace di Bolsonaro e che viene riconosciuto è, infatti, una sorta di presunto “pericolo” a cui si espone, dicendo tutto quello che c’è da dire, “fottendosene del politicamente corretto”.

 

Ma cos’è quella verità di cui parla Bolsonaro? Quale “realtà” appare nelle sue pratiche enunciative, negli eventi discorsivi che tanto attraggono i giovani? Innanzi tutto, come riporta Brum, sono costanti i riferimenti specifici alla propria esistenza. Parlando di sé, Bolsonaro sa che arriva direttamente in contatto con il pensiero di un soggetto ben identificato che non viene espresso come si dovrebbe, che rimane in una forma intima, domestica, nel rapporto tra se stessi e lo specchio che ci guarda. Dire che i suoi cinque figli “non si metterebbero mai con una nera e non potrebbero mai diventare gay, perché sono stati bene educati”, o che “la sua unica figlia é stata la conseguenza di una debolezza”, o, ancora, parlando di una deputata, che “non la stuprerebbe, perché è molto brutta”, mette direttamente in relazione l’educazione e la “forza” con un soggetto sociale e politico definito: il maschio bianco eterosessuale impoverito o marginalizzato nello “sviluppismo”. E a questo soggetto principalmente si rivolge.

 

Questo parlare in prima persona è una scelta precisa: l’uso dell’”io” consente di interpretare la frase secondo una “costante intrinseca e una variabile estrinseca. La costante intrinseca è il soggetto dell’enunciazione, l’’io sono’ referenziale, l’iniziatore. Le variabili estrinseche sono l’infinità di individui che possono dire ‘io’”. [2]

Possiamo stupirci, oggi in Italia, o per meglio dire, in Europa, anzi, meglio ancora, a livello globale, di simili eventi discorsivi? Sembrerebbe proprio di no, pensando alla ormai celebre frase salviniana “Lo dico da papà”, invitando di fatto ogni papà a sostituirsi a lui come soggetto, o anche autore, di quella frase.

 

Certo, la mostruosa dialettica di Bolsonaro non lo porta a fare dichiarazioni esplicitamente e apertamente razziste (anche per questo i suoi sostenitori non lo considerano tale), definendosi anzi il contrario, ma appare chiara “l'intenzione del soggetto parlante, la sua attività cosciente, quello che vuole dire, o il gioco incosciente che è emerso involontariamente da ciò che ha detto o dalla quasi impercettibile frattura delle sue parole manifeste; […] si tratta di […] scoprire la parola muta, mormorante, inesauribile, che anima dall'interno la voce che ascoltiamo.”[3] E questa parola si manifesta in tutta la sua evidenza razzista, quando si scaglia contro quelli che nessuno difende e di cui nessuno importa: gli indios e i quilombolas [4].

 

Che rapporto si instaura, quindi, tra “atto di parlare” e “verità”? Esattamente quello che Brum definisce un’autoverità.

L’enunciazione è un atto di parlare; il suo rapporto con le parole pronunciate è, in qualche modo, indiretto. Il linguaggio è forma esteriore, contiene le parole, le frasi, ma non gli enunciati.[5] Questi si disperdono e costituiscono le pratiche discorsive che rappresentano e hanno senso in una determinata situazione, epoca, contesto socio geografico e politico. L’atto di parlare ha una sua funzione specifica in quanto forma di azione, il suo rapporto con le parole usate è mediato e per certi aspetti bloccato da questa sua specificità.

Ecco così che prende corpo l’autoverità di cui parla Brum: si tratta della costruzione specifica di una “realtà” che non si lascia facilmente smontare dalle prove che dimostrano come le cose dette non abbiano attinenza con i fatti, perché quello che conta è la loro enunciazione e il modo in cui vengono enunciati. In ogni dibattito, dice Brum, prevale in Bolsonaro un’estetica fondata sul “dire tutto”, e in modo tale da apparire indiscutibile, non confutabile da fatti.

Per dire come queste pratiche abbiano una strettissima attinenza con i contesti socio culturali con cui si relazionano, Brum li spiega, almeno parzialmente, con la crescita esponenziale che hanno avuto in Brasile le chiese evangeliche fondamentaliste e la lettura del Vangelo che propongono. “L’autoverità attraversa il discorso fondamentalista come concetto e come estetica. Il miracolo della trasformazione è far sì che qui l’estetica sia convertita in etica”. A coloro che sono bombardati quotidianamente da una visione manicheista del mondo, urlata in tutte le chiese e radio del paese dai pastori fondamentalisti, Bolsonaro appare come un perseguitato nella lotta del bene contro il male, quindi nel giusto, paragonato, pericolosissimamente, a “uno strumento di Dio”. Si assiste, dice ancora Brum, a una “religionizzazione” della politica: “se l’imperativo è credere, l’adesione è già garantita a prescindere dal contenuto del discorso, a condizione che la drammaturgia garantisca l’intrattenimento, lo spettacolo”.

 

Non sono aspetti marginali, folkloristici, quelli descrive Brum: il Brasile si sta avviando a una delle elezioni più importanti della sua storia, con il candidato in testa nelle preferenze in carcere, con un governo Temer nato dal nulla e che finirà nel nulla, con una sinistra da ricostruire, soprattutto culturalmente, dopo la negativa esperienza di Dilma e i contraccolpi dell’inchiesta Lava Jato, con una crescente marginalizzazione dei popoli indigeni, come ha scritto recentemente Brum, a cui la sinistra stessa, già con Lula e ancor più con Dilma, non ha opposto assolutamente niente.

E’ in questo contesto che Bolsonaro ha sdoganato uno dei più feroci assassini e torturatori dell’epoca della dittatura militare, il colonnello Carlos Alberto Brilhante Ustra.

E’ in questo stesso contesto che Brum ha delineato un percorso obbligato della sinistra, in un articolo sul fenomeno Lula, che non a caso mette al centro il tema del diritto degli Indios a esigere diritti, primo tra tutti quello di vivere nell’ambiente e nei modi che hanno scelto. Ma questo può avvenire solamente attraverso una trasformazione epistemologica, che vada verso una “antropologia cromatica e trasformativa […] L’antropologia si costituirebbe come un dispositivo di “traduzione” - con tutti i possibili malintesi ed equivoci che da ciò può derivare – un dispositivo che tuttavia modifica lo statuto stesso dell’operazione antropologica”, come ha scritto recentemente Fabrice Olivier Dubosc.

 

E’ attraverso questo percorso che la sinistra brasiliana può recuperare una sua specificità e forza propulsiva, non solo per il paese, ma per l’intero continente. Una specificità che la porti, come ha scritto Brum in chiusura dell’articolo citato, a “misurarsi con la foresta e gli altri modi di vivere dei ‘Brasili’”.

 

 

 

 

 

 

 



[1] M. Foucault, Lezioni su “Discourse and Truth”, Università di Berkeley, Ottobre-Novembre 1983. Traduzione mia da audio in inglese

[2] G. Deleuze, M. Foucault, A formações históricas, Politeia, São Paulo, 2017-2018, aula 4, pag. 33. Traduzione mia

[3] M. Foucault, A Arqueologia do Saber, Forense Univeristária, Rio de Janeiro, 2008, 7^ edição, pagg. 30-31. Traduzione mia

[4] Con questo termine, vengono chiamati gli abitanti delle comunità che, un tempo sfuggiti da schiavitù e rifugiatisi nella foresta, continuano a vivere in zone remote.

[5] G. Deleuze, Il potere, Ombrecorte, Verona, 2018, pag 193

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