Dove si nasconde l'identità

Fabrice Olivier Dubosc*

Il sé narrativo tra storytelling mediatico, intersoggettività biografica e riconnessione immaginale

 

Vorrei provare ad affrontare il tema così sensibile dell’identità da quattro prospettive diverse 1. Qualche accenno al contributo della psicoanalisi alla questione identitaria. 2. L’identità dal punto di vista della filosofia ‘narrativa’. 3 Una considerazione socio-antropologica su cosa dicono molte culture ‘tradizionali’ su ciò che accade quando salta l’interdipendenza 4. Infine un invito a considerare il rapporto tra soggettività, convivialità e immaginazione.

 

A mo’ di premessa vorrei collegare metodologicamente la questione dell’identità a quello della salute. Perché per certi versi l’identità è un sintomo, nel senso che ce ne accorgiamo quando qualcosa non va.  L’identità fa problema solo quando ci interpella nei momenti di crisi o di passaggio nelle diverse età della vita, o  a partire da una sfida, che sovente è inaspettata, imprevista, se non traumatica, sovente dall’incontro o da uno scontro con una modalità differente di stare al mondo di fronte alla quale ci definiamo per confronto o reazione.

 

Farò l’esempio dell’epidemia di Ebola – ricordate Ebola? - perché ci permette di osservare quanti  diversi vertici di osservazione possano entrare in gioco nell’analisi di un fenomeno e come il pregiudizio disciplinare e culturale possa deformare le questioni in gioco. C’è qui un problema epistemologico di fondo nel rapporto tra teoria e pratica: e cioè che non abbiamo nessuna garanzia che il campo del reale coincida con il campo di ciò che è comprensibile. Nessuna soluzione teoretica sembra adeguata ai problemi che la prassi pone. Anche perché «il fatto che ogni essere umano è fonte di auto-comprensione e che ogni tradizione culturale offre un contesto di riferimento particolare (cioè un mito) che propizia la comprensione fa sì che la conoscenza oggettiva sia incapace di districarsi del tutto da quella soggettiva.» (Panikkar) Da qui nasce la problematica del pluralismo.  Questa irriducibilità del reale e della prassi è uno dei motivi per cui molti dei fenomeni socio-culturali della storia sono autentiche sorprese. Le sintesi olistiche peccano sovente di presunzione e rischiano di ri-alimentare la vecchia illusione filosofica che il pensiero umano e la realtà (l’essere) coincidano.

 

Per fare un esempio: Una metodologia ‘olistica’ che si vorrebbe ‘integrata’ e che ha goduto di una certa attenzione da parte dell’accademia americana associa (nel solco di un’onorevole tradizione strutturalista) i diversi vertici di osservazione con cui possiamo osservare un fenomeno ai pronomi personali: specialmente al primo e al terzo pronome personale singolare e plurale (io/noi/esso/loro). Un dato fenomeno come  Ebola, può, per esempio, essere osservata da quattro prospettive.

 

Per esempio se la collochiamo nel quadrante del pronome personale ‘io’ l’epidemia di ebola può essere considerata dal punto di vista della fenomenologia del vissuto di chi è stato contagiato, che include i sintomi fisici, la febbre emorragica, le disfunzioni organiche eccetera  oltre ai vissuti psicologici dei malati legati alla consapevolezza della probabilità di una morte atroce, o a quelli degli operatori esposti al pericolo di contagio e così via.

 

Se passiamo alla terza persona singolare (esso/’it’/ciò)  focalizzeremo l’analisi sull’oggetto virus e analizzandolo scopriremo che nella sua dimensione biologica si tratta di un virus a rna, costituito da una catena di 288 aminoacidi, che ha un dato ciclo virale, determinati meccanismi di trasmissione e determinate riserve virali possibile fonte di contagio (per esempio i pipistrelli).

 

Oppure possiamo ragionare a partire dal ‘noi’, da come cioè una cultura rappresenta quella malattia o da come noi connotiamo più o meno etnocentricamente le rappresentazioni delle altre culture. E le due cose sovente si intrecciano come nella retorica che descrive Ebola come segno di inferiorità culturale nella gestione dell’igiene se non addirittura come una punizione divina. Per esempio il concilio delle chiese della Liberia in una dichiarazione ratificata dal presidente della repubblica ha considerato Ebola come una punizione divina contro l’omosessualità. Analizzando invece l’impatto dello story-telling mediatico nell’immaginario occidentale, il virus è stato sovente descritto come una malattia che emergerebbe dal cuore di tenebra dell’Africa e che avrebbe potuto iniziare una pandemia che - al contrario della malaria – l’occidente non sarebbe in grado di controllare. Per certi versi si colloca su questo piano anche quell’epidemiologia etnocentrica che cade nella tentazione di attribuire a un’inferiorità ‘culturale’ la difficoltà di consolidare efficaci misure di prevenzione: dando per esempio maggior molto peso alla scarsa compliance dei protocolli da parte dei pazienti colpiti dal virus o a pratiche alimentari (consumo estremamente occasionale nelle foreste di carne di scimmia) o ai riti funebri tradizionali che prevedono, prima della sepoltura, il lavaggio del tratto gastrointestinale o ancora all’eziologia tradizionale che attribuendo la malattia a operazioni occulte trascurerebbe la prevenzione o la cura biomedica. Esempi delle retoriche narrative che ogni ‘noi’ può mettere in atto.

 

Se passiamo all’osservazione di oggetti complessi al plurale (non più un ‘noi’ e nemmeno un singolo ‘it’ ma le cose, il ‘ciò’ plurale e complesso osservato dal punto di vista di una sua oggettivazione) utilizzeremo un vertice di osservazione socio-economico o politico –la problematica del contagio prenderà in considerazione processi  di disuguaglianza nello sviluppo e di conseguenza nei sistemi di prevenzione e cura, a partire dalle politiche post-coloniali liberiste considerando anche fattori strategico-commerciali da parte di Big Pharma, fattori di geopolitica sanitaria per cui la possibilità di una epidemia in Occidente viene considerata ben più grave della pandemia africana o ancora le intelligence militari e securitarie che si premuniscono contro un possibile futuro bio-terrorismo. Queste prospettive ampliano il campo rispetto alla retorica dell’arretratezza culturale che sceglie di ignorare come il maggior tasso di contagio avvenga nelle non nelle arretrate campagne ma nelle zone urbanizzate e tra il personale degli ospedali anche a causa della povertà degli ospedali, dell’inadeguatezza delle strutture mediche e della pessima qualità dei materiali di protezione specialmente all’inizio dell’epidemia.

 

Se adottiamo questa griglia, anche la questione dell’identità può essere osservata da diversi vertici di osservazione, da quello fenomenologico-percettivo, dalla prospettiva della psicologia individuale, evolutiva, sociale o comportamentale [come ragioniamo su cosa esperisce l’[‘io’] oppure considerando da quello delle basi neurofisiologiche dei processi cognitivi e affettivi,[‘it’] o ancora ampliando il campo al [‘noi’] per esempio all’osservazione delle narrazioni culturali, o ampliando la questione da una prospettiva storico-filosofica, da una prospettiva di genere, religiosa sociologica, politica.

 

Tuttavia anche volendo integrare questi diversi modelli di analisi il rischio è sempre quello di trattare la questione in modo astratto: da un lato si dà un enorme peso all’oggetto di analisi ma dall’altro con tutta questa complessità di griglie e vertici di osservazione si rischia di renderlo evanescente. Un problema di fondo è che l’astrazione ha sostituito completamente quell’empatia immaginativa che per secoli (penso solo a Giambattista Vico) era stata pensata come fonte di conoscenza. Inoltre in questa griglia che si vorrebbe integrale e inclusiva manca un rapporto critico con la dimensione discorsiva in cui i saperi si intrecciano e sovente legittimano le forme del controllo sociale. Non a caso il prenome personale che nella griglia manca è il ‘tu’.

 

E se c’è un’invariante umana che poi si declina in infiniti modi è questa disposizione a costruire significatività a partire da codici affettivi che sono sempre legati a un’esperienza del ‘tu’ vissuta o immaginata. Se vogliamo salvare qualcosa in termini di struttura è a questo codice a un tempo affettivo e immaginativo che dobbiamo pensare.

 

Alle griglie all-inclusive preferisco allora quel che diceva Barthes:  Il lavoro interdisciplinare, di cui tanto oggi si parla, non è un confronto tra discipline già costituite (nessuna delle quali in fondo è disposta a lasciarsi andare). Per fare qualcosa di interdisciplinare non basta scegliere un “soggetto” (un tema) e raccogliervi attorno due o tre scienze. L’interdisciplinarità consiste nel creare un nuovo oggetto che non appartiene a nessuno.

 

Fatta questa premessa metodologica, entro nel merito del primo punto.

 

Cosa dice la psicoanalisi dell’identità?

 

Il dibattito su quali vertici di osservazione psicoanalitici siano politically correct è ormai superato. Pochi contrappongono oggi una visione della strutturazione psichica a partire dalla dinamica pulsionale come relativamente indipendente dalle dinamiche relazionali, socio-culturali, psico-sociali. Contrapporre intrapsichico a intersoggettivo è un po’ come discutere se venga prima l’uovo o la gallina.

 

In estrema sintesi, il contributo radicale della critica psicoanalitica è stato quella di dimostrare  che l'Io, non è padrone in casa propria ma è una unità strutturalmente frammentata. Il soggetto non coincide  con il cogito, ma è abitato da più istanze: istanze affettive, etiche, critiche, pulsionali, cognitive, erotiche, aggressive. La salute mentale non consiste in una monarchia assoluta dell'Io ma nel comporre una sintesi efficace o una relativa armonizzazione tra tutte queste istanze. Non a caso Franco Fornari parlava di democrazia affettiva. C’è un  parlamento interno a cui spetta trovare un equilibrio che non è mai assicurato una volta per tutte. Si può anzi considerare il disagio psichico come il risultato di una grave difficoltà nell’armonizzare le diverse aree della psiche nella misura in cui una di queste si vuole imporre sulle altre costringendole a rimuovere la loro voce. Come diceva un mio maestro, Dieter Baumann, “Ogni complesso è in ultima analisi un complesso di potere.”  La paranoia da questo punto di vista è paradigmatica: perché consiste nella proiezione difensiva verso l'esterno delle parti di sé meno tollerabili. È quello che accade in ogni forma di razzismo, di intolleranza di risentimento animoso nei confronti della diversità. Si giunge a credere che la nostra identità si costituisca nella difesa da ogni contaminazione quando in realtà  rifiutando ed espellendo le voci plurali del nostro parlamento interno propiziamo il regime paranoide dell’identità.  Franco Fornari sosteneva che la guerra è l’elaborazione paranoica del lutto e analogamente vorrei proporre che il terrorismo di qualunque sorta sia un’elaborazione paranoica della differenza. E si può dire che si tratta di un meccanismo arcaico – in psicoanalisi lo si definirebbe forse ‘identificazione proiettiva’ – e molto contagioso – l’elaborazione paranoica della differenza genera ulteriore elaborazione paranoica della differenza. Se l’altro è ciò che immagino minacci la mia diversità finisco col pensare che ciò che è male per l’altro è un bene per me ... più lo rappresento come barbaro, alieno, più nutro il desiderio di apartheid più imbarbarisco e divento alieno.

 

Devo aggiungere che un altro contributo positivo della psicoanalisi è stato quello di collegare identità a transizionalità. Nelle prime crisi di differenziazione dalla madre Freud e poi specialmente Winnicott hanno osservato che il bambino crea oggetti transizionali. Mette una parte di Sè nella bambola con cui gioca e una parte della mamma che accudisce dentro di sè. Nel gioco compie una prima operazione complessa di elaborazione del cambiamento o della separazione senza sentirsi distrutto dalla trasformazione o dalla sua stessa aggressività.

 

A questo punto possiamo fare un primo confronto con l’eredità di molte culture cosiddette tradizionali... anzi possiamo dire che ritroviamo una grande coerenza tra quanto detto finora e il pensiero di una tradizione e di pratiche che sovente mi sembrano molto vicine alla nostra sensibilità contemporanea e che appare molto diversa da quell’idea di una monolitica trasmissione del medesimo con cui tendiamo a pensare le culture ‘altre’. Prendo come esempio un testo del grande Hampate Amadou Ba (‘Notes sur la notion de personne dans le traditions peuls et bambara’ in – Aspetti della civiltà africana)

 

«La tradizione insegna effettivamente che vi è prima Maa una Persona-ricettacolo e poi Maaya, vale a dire i diversi aspetti di Maa, contenuti nel Maa-ricettacolo. Come dice l’espressione bambara (…): «Le persone della persona sono molteplici nella persona». Ritroviamo esattamente la stessa nozione tra i fulbe. (…) La nozione di persona è dunque in partenza, molto complessa, Implica una molteplicità interiore, piani di esistenza concentrici o sovrapposti (fisici, psichici e spirituali a diversi livelli) come pure una dinamica costante (…) Sino a che l’uomo non ha messo ordine nei mondi, nelle forze e nelle persone che lo abitano è un Maa-Nin, vale a dire una sorta di omuncolo, un uomo ordinario, un uomo non realizzato. La tradizione dice [che] «Non si può uscire dallo stato di Maa-Nin, per reintegrare il Maa primordiale, se non si è padroni di sé stessi» (…)  La grandezza e il dramma del Maa deriva dal fatto che è luogo di incontro di forze conflittuali in perpetuo movimento le quali potranno trovare un ordine nel corso delle diverse fasi della vita solo a partire da un’evoluzione riuscita sulla via dell’iniziazione. (…) Le forze molteplici e  diverse che si muovono nell’universo nascosto del Maa costituiscono degli stati, o persone psichiche che emanano dallo Spirito stesso del Maa (…). È lui che fa nascere l’Immaginazione, facoltà assai reale (da non confondere con l’immaginario), facoltà grazie alla quale il Maa diventa capace di visione e può entrare in contatto con spiriti o esseri che abitano fuori dal mondo visibile (…)  Lo psichismo dell’uomo è dunque un insieme complesso. Come un vasto oceano, la sua parte conosciuta non è nulla rispetto a ciò che resta da conoscere.»

 

Concludiamo provvisoriamente dicendo dunque che da questo vertice di osservazione sulle dinamiche dell’identità, essa viene descritta come un processo, come contenitore attivo di una pluralità di forze. Cediamo rappresentate sia tendenze conflittuali disaggreganti che un’aspirazione a rendere quanto meno sostenibile questa pluralità.

 

Il secondo vertice di osservazione che vorrei proporre è sul possibile rapporto tra  dimensione narrativa e intersoggettività.

 

Partirei allora da tre considerazioni fatte da Hannah Arendt:

 

1. Come conciliare la singolarità di ogni vita umana con le sfide comuni della condizione umana?

2. Questa singolarità dell’identità, questo daimon che ci accompagna, non è un «testo» facilmente decifrabile, non coincide con ciò che sappiamo di noi stessi.

3. L’identità personale si esprime in azioni e parole diventa narrabile quando qualcun altro ci parla ci racconta, ci dice «tu»... e noi ci ri-conosciamo – almeno in parte - nel loro racconto...

 

La Arendt non a caso cita un breve racconto paradigmatico tratto dalla mia Africa di Karen Blixen:

 

«Un uomo che viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da un gran rumore. uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell’oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciatosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna»

 

A questo punto Karen Blixen si chiede: «quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò o altri vedranno una cicogna?»

 

Anche in un altro racconto della Blixen, il Cardinale, l’incontro con l’altro suscita una domanda analoga:

 

«“Chi siete voi?” domandò al cardinale Salviati la signora in nero. Il Cardinale alzò lo sguardo, incontrò i suoi occhi sgranati e sorrise dolcemente. “Chi sono io?” ripetè. “Davvero, Madame, di tutti i miei penitenti siete la prima a farmi questa domanda – la prima, anzi, a dar segno di credere che io possa avere una mia identità da confessare. Non ero preparato alla vostra domanda”

(Blixen 1995, pp. 13-38).

 

 La Arendt utilizza questi testi per fare le seguenti considerazioni:

 

1.                   Rispetto all’enfasi della filosofia sul soggetto, sul ‘chi sono io?’ sul cogito, sul ‘conosci te stesso’, in fondo sull’equivalenza parmenidea di essere e pensiero, la Arendt ci dice che conta di più la domanda ‘chi sono io per te?’ Ogni migrante in fondo se lo chiede: ‘cosa significa quello sguardo distolto, quel sorrisetto di compatimento, quella testa che si volta dall’altra parte?’ Quando non accade qualcosa evidentemente di più esplicitamante razzista.

2.                   La Arendt ci dice che il significato di una vita non può essere né previsto, né progettato né controllato - può essere visto e raccontato solo dopo e forse solo grazie allo sguardo degli altri, a partire dalla loro capacità di empatia immaginativa. Secondo l’interpretazione in chiave biografica suggerita da Arendt, fu la vita stessa a convincere Blixen della verità di questo insegnamento.  In tale lettura, le amicizie giovanili di Karen, così come il suo matrimonio, furono il tentativo di fare i conti con una storia per certi versi ‘già scritta’, in termini sistemici si potrebbe parlare della tentazione di far avverare un destino in qualche modo prescritto dal sistema familiare o dagli incorporati socio-culturali. Il fallimento di questo progetto avrebbe dimostrato alla Blixen che è “peccato fare in modo che una storia si avveri”. Cercare di forzare la vita per farle prendere la forma di una storia, insomma, non può che portare al fallimento: bisogna piuttosto aspettare pazientemente che la storia emerga dal tessuto degli eventi.

3.                   Infine c’è l’intreccio tra narrazioni. «L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori.» Le storie risultano dalla nostra singolarità, ma si tratta di una singolarità esposta al mondo. Siamo sì unici ma su una scena plurale e le nostre storie di intrecciano con quelle degli altri e con la storia che gli altri raccontano di noi ed è l’intreccio di queste storie a fare la storia .

 

Se passiamo dunque dalla narrazione biografica isolata a questo intreccio di narrazioni che costituiscono la storia emergono dei veri e propri eventi del tutto imprevedibili, che diventano generativi a partire da fecondazioni interculturali improbabili come dimostra la storia della schiavitù e il suo rapporto con la nascita di un codice estetico musicale, il blues, che ha influenzato le musiche del mondo.

 

Il sociologo di origine giamaicana Paul Gilroy sottolinea che bisogna diffidare sia delle tendenze a definire le culture e le appartenenze da un punto di vista essenzialista razziale e etnico, sia di quelle che tendono a azzerare tutto, a negare la storia e le sue eredità, i suoi lutti non elaborati, e ciò che in essi continua a sollecitarci.

Vi è dunque un duplice possibile errore: quello essenzialista ed etnocentrico e quello di un relativismo radicale negazionista che in nome dell’uguaglianza ignora le differenze.

 

Cosa accade quando salta l’interdipendenza?

 

Come risulta molto chiaro dalla citazione di Hampate Ba, nelle società tradizionali la crisi è legata a uno squilibrio nei rapporti di interdipendenza tra dimensioni complesse e plurali. Se l’ecosistema psico-sociale – cioè la rete di interdipendenze che ci costituisce -  è turbato l’anima viene rapita, mangiata. In altre parole se un equilibrio viene turbato il complesso di potere riemerge prepotentemente e ciò accade sia psicologicamente che nei rapporti di forze sociali tra potentati, clan, etnie radicalizzate intorno a interessi economici e all’ estrattivismo dominante nel rapporto tra umili e potenti.

 

Se guardiamo alla tradizione di questo ‘rapitori d’anima’ incontriamo i ‘monacelli’ di Carlo Levi come gli scii della tradizione irlandese, che appartengono alla stessa famiglia dei jnoun, i loro cugini arabi. Assumono forme mutevoli, anzi si rivelano proteiformi. Possono apparire come creature piccole o grandi, come animali, uccelli o folate di vento. abitano luoghi antichi, abbandonati e tumuli Forse si celano sotto terra o nell’oceano, ma non sono mai lontani. La tradizione vuole che si lasci loro qualcosa da mangiare, segno dell’interpenentrazione dei mondi e  della necessità che essi pur restando separati siano di reciproco alimento. Infatti folletti e coboldi, fate, diale e monacelli, possono aiutare a tenere in ordine la casa, o persino a trovare un tesoro Alcuni uomini saggi impareranno da loro a recuperare  il bestiame perduto o a trovare cure e rimedi. Ma possono anche portare male, fare dispetti o incantare e rapire gli sprovveduti che cadono sotto il potere della loro fascinazione.

 

Questi spiriti, come i kwei-shin cinesi o come il genius loci romano, sembrano indicare la dimensione invisibile del mondo visibile:indicano cioè ciò che non può cogliere alla lettera ma solo grazie a una mediazione immaginativa. Sembrano indicare che dove vi è soglia, confine, dimensione liminale vi è un daimon mediatore. Proprio per questo mal sopportano la nostra tendenza letteralizzante, incapace di immaginazione simbolica. Chi ha preso le misure del mondo daimonico attraverso l’immaginazione non ha bisogno di essere ‘rapito’.

 

Naturalmente il topos del rapimento ha tutta una serie di possibili amplificazioni contemporanee dall’epidemia di rapimenti ufologici in America (e nelle rappresentazioni gli E.T. assomigliano molto agli elfi di una volta) ai rapimenti generati dalle dipendenze, dalle sette religiose, dale leggende urbane sulla tratta delle bianche  rapite nei camerini dei grandi magazzini per essere rivendute a qualche sceicco, al vecchio mito degli zingari o degli ebrei rapitori di bambini. Se vince il desiderio di apartheid, se la ete di interdipendenza si rompe, per metonimia, ogni singola diversità visibile o invisibile assume le vesti di ciò che può rapire. Così l’elaborazione paranoica della differenza cerca di rendere più sopportabile il fantasma dandogli corpo. Anche se è vero anche l’inverso il sopruso e la persecuzione generano fantasmi. Ci sono  tratte vere e proprie per non parlare dei rapimenti che avvengono tragicamente nelle zone di conflitto.

 

L’importanza del dialogo immaginativo

 

Nel nostro modo di pensare il mondo anche se non siamo scienziati siamo sopratutto rapiti dal potere dell’astrazione e della comunicazione virtuale, siamo assuefatti a dimensioni discorsive che ci separano dagli altri e ci spingono isolarci in un orticello sempre più povero – Il compianto James Hillman diceva che dobbiamo riscoprire Hestia e le pratiche della convivialità.

 

Siamo eredi di una tradizione che scinde radicalmente ‘dentro’ e fuori’, noi e gli altri, l’identità e l’alterità.  – è una cosa così scontata che non ce ne accorgiamo nemmeno più.   Il nostro sguardo sul mondo si appoggia su categorizzazioni, stereotipi, narrazioni pre-confezionate che ci difendono dall’esperienza . Questo ego monolitico deve pensare che in nome di una qualche ‘verità oggettiva’ la verità coincida con l’univocità letterale delle definizioni e delle cose. E’ un io che si prende troppo sul serio e prende tutto alla lettera. In ogni caso nell’atto di conoscenza mi tranquillizzo perché mi illudo di controllare l’alterità a partire dal mio sapere. In realtà la dinamica di questo processo è proprio quella di dominare e negare l’autonomia dell’alterità.  E’ una dinamica mossa dalla paura, è una dinamica divorante e che non trova né genera pace .

 

L’idea che vorrei proporvi è che una pratica della convivialità richiede il superamento di questo atteggiamento e questo superamento richiede una rivalutazione della dimensione immaginale. Non si tratta di pensare una fuga dal mondo nell’interiorità personale. La psiche non è una faccenda privata, anche se non è pubblica nel senso dell’oggettivazione impersonale. Torniamo all’idea che la psiche si muove in un’area di interdipendenza e conflitto a partire dalla quale  tenta di definire la possibilità di una comunanza. E la vera comunanza trascende i confini tra ‘dentro’ e fuori’, tra pubblico e privato. La comunanza esiste tra persone che riescono a percepirsi sospendendo il giudizio, limitando o quanto meno riconoscendo le proiezioni. La comunanza può esistere solo quando la rigida partizione tra sé e il mondo si ammorbidisce. Le differenze permangono ma non sono più barriere, scopriamo la possibilità della convivialità. Possiamo definirci e differenziarci, nel corso della vita ci trasformiamo tutti ma la convivialità ci riconnette con il potenziale che siamo stati.

 

Anche Paul Gilroy distingue la multiculturalità inglese imposta dall’altro che sostanzialmente ghettizza intere comunità e la ricchezza delle dimensioni in cui le comunità riescono a uscire sia dai ghetti culturali che da quelli sociali.  Gilroy sostiene la convivialità rappresenta un «multiculturalismo dal basso, una risposta matura alla diversità, alla pluralità e alla differenziazione, una risposta orientata dall’essere esposta quotidianamente alla diversità.» E aggiunge che la convivialità «non viene certamente pianificata o orchestrata dall’alto da istituzioni municipali illuminate e da una leadership politica che punta alla razionalizzazione. Non può essere disciplinata, ventriloquizzata o iconizzata. Se desideriamo sviluppare e proteggerla come risorsa civica dobbiamo renderci conto che esiste malgrado gli interventi pubblici ed è ancora più preziosa» proprio perché non coincide con essi.

 

Se dovessi sintetizzare in un solo paragrafo tutto questo penserei alla risposta indiretta che Italo Calvino dà a Sartre alla fine delle Città Invisibili. Come sapete Sartre aveva detto – del resto sulla scia di Freud: ‘L’enfer c’est les autres’. Calvino scrive:

 

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà. Se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo insieme tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno è diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio.»

 

* Psicoanalista e terapeuta interculturale  

 

fabrice.olivier.dubosc@gmail.com

 

** La foto di copertina raffigura la rappresentazione di uno Tchiloi, una forma teatrale delle isole di Sao Tomé e Principe risalente al XVI secolo che mette in scena la violenza degli scontri tra bianchi e neri. Questi ultimi cercano di recuperare una autonomia simbolica attraverso l'uso di maschere bianche. Contenuta in I.C. Henriques, "Lugares da Memória da Escravatura e do Tráfego Negreiro".

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